MANOWAR "Sign of the Hammer" (Recensione)
Full-length, Ten Records
(1984)
La musica è arte, sentimento, libera espressione, e tante altre cose carine da Baci Perugina, ma solo in certi casi trascende queste prerogative per diventare inno e messaggio di una Fede. Fidatevi di me, in questo caso l'introduzione appena letta non è un semplice esagerazione uscita dalla bocca di un fan lobotomizzato, ma l'unico modo concettualmente utile a descrivere "Sign of the Hammer" dei Manowar, rilasciato il 15 Ottobre di 36 Primavere fa su Ten Records. Personalmente ho sempre seguito assiduamente e fedelmente la crociata del quartetto di Auburn NY sin dall'acerba età di 13 anni, superando anche quello che molti inetti definirebbero come un periodo in cui si è normalmente attratti da un tipo di proposta musicale "da ragazzetti metallari."
Qui l'istituzione che prende il nome di Manowar ruggiva ancora forte - prima dell'inevitabile tracollo della fine degli anni 90 n.d.r. - regalando opere di valore assoluto, capisaldi dell'Heavy Metal che tuttora odo criminalmente poco celebrate. Con "Sign of the Hammer" infatti (e già del precedente "Hail to England", rilasciato appena 3 mesi prima nel solito anno) la formazione storica dei Manowar composta da De Maio, Adams, Ross The Boss & Scott Columbus, va a prendersi di prepotenza il proprio posto nel pantheon dell'Heavy Metal, in un'annata in cui la compitezione era accesa come non mai (basti pensare ad altri capolavori contemporanei a questo disco, come "Don't Break the Oath" e "Powerslave"). 8 tracce, 40 minuti, un bombardamento continuo di pezzi che rimarranno scolpiti a vita nella carriera della band. Sento ancora i brividi sul collo della prima volta che ho ascoltato "Thor (The Powerhead)", con la sua entrata monolitica e lo strillo disumano della chiusura, oppure il momento di romanticismo (mai patetico) di "Mountains", tuttora a mio parere una delle più importanti performance vocali dI Eric Adams e del genere intero. Tutto suona dannatamente bene: i colpi di batteria paiono (appunto) martellate sul ferro incandescente e la sezione ritmica delirante di Joey de Maio ormai è materiale di storie raccontate accanto al fuoco.
Le lodi si sprecano anche per uno dei chitarristi più importanti del genere - attaccatevi al beneamato se pensate il contrario - ovvero Ross The Boss, unico chitarrista a parere del sottoscritto a poter sorreggere un pezzo della band con potenza e classe allo stesso tempo: ad ulteriore dimostrazione di questa tesi, lo strepitoso assolo della conclusiva "Guyana (Cult of The Damned)". Il delicato equilibrio. fra la potenza animalesca della voce e le saturazioni al limite del comparto strumentale, agisce incredbilmente al servizio della composizione del disco - essenziale ed efficace - tratto che i Manowar (e pochissime altre band n.d.r.) riescono a fare il loro cavallo di battaglia. Potrei spendere ore a tessere le lodi di questo disco, ma preferisco concludere questa recensione con un monito, per così dire: vedendo in quale stato versi l'Heavy Metal ai giorni nostri - dove ormai macchiette schiave di etichette gigantesche come Alissa White-Gluz e nullità in ri-ascesa come Tim Owens si permettono ad esempio di violentare "We Rock" di Dio - è necessario come non mai riscoprire l'Ortodossia, la Perfezione nell'intransigenza totale, la Forza perduta dell'Heavy Metal, figlio prediletto del Rock 'n' Roll, e dei tempi in cui sventolava al cielo Mjolnir e non una bandierina di EMP. "Crush the Infidels in Your Way!"
Hellbanno (L.B.)
Voto: 10/10
1. All Men Play on 10
2. Animals
3. Thor (The Powerhead)
4. Mountains
5. Sign of the Hammer
6. The Oath
7. Thunderpick
8. Guyana (Cult of the Damned)
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