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KHORS "Where the Word Acquires Eternity" (Recensione)


Full-length, Ashen Dominion 
(2020) 

Tra le realtà più intriganti in ambito black metal dell'est Europa gli ucraini Khors ricoprono sicuramente una posizione di tutto rispetto, andata consolidandosi album dopo album così come il loro sound, attraverso un percorso di crescita che non sembra intenzionato ad avere fine. "Where the Word Acquires Eternity" è il settimo lavoro sulla lunga distanza della band originaria di Kharkiv e uscirà il prossimo 15 settembre sotto la neonata etichetta Ashes Dominion, a cinque anni di distanza dal precedente "Night Falls Onto the Fronts of Ours" e a due dall'EP "Beyond the Bestial"; è il primo dopo l'addio dello storico cantante e chitarrista Hegl, a cui nel 2019 è subentrato Andres, mentre l'altro chitarrista Jurgis lo ha sostituito alle vocals. Difficile per chi abbia seguito l'evoluzione della band nel corso degli anni farsi un'idea definita di questo album, che fin dalle prime note sembra voler sfuggire ai canoni dei suoi predecessori per avvicinarsi al sound delle origini. 

Ma andiamo con ordine. I Khors appaiono per la prima volta sulla scena nel 2005 con il capolavoro d'esordio "The Flame of Eternity's Decline", nel quale propongono un black metal atmosferico ed oscuro, a tratti lento e melodico, che alterna feroci sfuriate a passaggi quasi al confine col doom; il successivo "Cold" mostra una maggior componente atmosferica e ambientale, accennando anche qualche tocco post-rock, ma è solo con il terzo full-lenght "Mysticism" che si intravede una netta tendenza alla sperimentazione e ad un sound sempre più vicino al post-metal, non più oscuro ma onirico, talvolta tendente al death e in altri passaggi prossimo allo sludge. Da allora i Khors sono fuoriusciti dal mero underground abbandonando il black metal in senso stretto degli esordi in favore di un blackened death metal con richiami troppo decisi agli ultimi Behemoth, unito ad una versione melodica ed orecchiabile di post-metal estremo, con sognanti tastiere e un riffing colorato ed eccessivamente armonico, nonostante un tocco atmosferico sempre presente e accattivante. Sicuramente è stato questo il motivo per cui non sono mai riusciti ad affiorare in modo deciso nel panorama estremo europeo, pur avvicinandosi come sonorità e come senso di tradizionalità ai ben più noti Drudkh e Negura Bunget, senza mai risultare scontati o prevedibili, intraprendendo però corsie musicali esageratamente contraddittorie e un po' troppo variegate. 

La band formata dal bassista Khorus, dal batterista Khaoth e dal già citato Hegl nel lontano 2004 riprende il proprio nome dal dio della mitologia slava che rappresenta il sole invernale, che con l'accorciarsi dei giorni si rimpicciolisce fino a morire durante il solstizio d'inverno, sconfitto dal dio oscuro e maligno Chernobog prima di rinascere col nome Kuleda il 31 dicembre; tale singolare scelta sembra preannunciare fin da subito le tematiche tradizionaliste che la pagan black metal ucraina tratterà nel corso della sua carriera, ricorrendo a vicende storiche locali rievocate tanto nelle liriche quanto in un sound sempre più personale ed arcaico, volto a rappresentarne la terra di origine e a spogliarsi di qualsiasi altra definizione geografica. In questo senso il concept "Where the Word Acquires Eternity" sembra svelare un'ancor più netta attitudine patriottica e culturale rispetto ai suoi predecessori, trattando di uno degli episodi più tragici della storia di Kharkiv, avvenuto nei primi anni '30 del Novecento al termine dell'epoca di maggior splendore dell'allora capitale ucraina, che per almeno un decennio è stata uno dei maggiori centri culturali ed intellettuali dell'Europa dell'Est. Tale posizione di rilievo nella società dell'epoca fu consolidata con l'edificazione di un blocco di appartamenti a forma di "C" (che stava per СПΟΒΟ, ovvero "parola", di cui il titolo del concept costituisce un chiaro riferimento), nei quali hanno a lungo soggiornato scrittori, poeti ed attori ucraini prima della violenta repressione del 1933 attuata nei loro confronti dai socialisti sovietici, che li ritenevano colpevoli di aver incitato il popolo contro il nazionalismo borghese e contro il governo russo; 33 furono i giustiziati e 5 i condannati a morte nel nome della lotta alla libertà di parola e molti altri furono peseguitati e controllati, segnando di fatto la caduta della "Casa della parola" e dell'epoca d'oro di Kharkiv.

Venendo al lato puramente musicale, l'album costituisce un nuovo punto di svolta nella carriera dei Khors, succedendo ad una serie di lavori con ben pochi residui del black metal degli esordi, definiti da raffinate melodie, da atmosfere oniriche e da decisi tocchi post-rock, per abbracciare di nuovo l'aggressività di un tempo e rinnovare ancora una volta il sound del quartetto. Il lavoro si apre con la violenta "Starvation", introdotta da una batteria feroce e fulminante e da gelide chitarre atmosferiche in puro stile black metal, con un cantato in scream alla Nergal molto personale e drammatico e un refrain di cori a seguire la voce principale, mentre sul finale un assolo lento e cupo dona al brano una nota tragica e cupa. Più lenta e ragionata è la successiva "Blissforsaken", che ricorda vagamente gli ultimi Shining e unisce la drammaticità del mid-tempo iniziale ad un'eco atmosferica e ambientale, prima che il fragore di chitarre gelide e affilate ne acceleri improvvisamente l'andatura, esaurendosi di nuovo in un assolo melodico affatto scontato. La melodia e le tastiere dominano invece in "Crystals of the Fall", brano sognante dalle atmosfere vagamente ambient scandito da virtuosi assoli e riffing melodici, mentre la successiva "The Sea of my Soul" spiazza l'ascoltatore con uno sludge/post-doom che sembra rievocare i Forgotten Tomb di "Negative Megalomania", assumendo contorni claustrofobici e disturbanti assolutamente ipnotici, per poi lasciare letteralmente a bocca aperta nel refrain corale in clean lento e sognante, a precedere la melodia dell'assolo finale. "...and Life Shall Harvest One's Past" fa tornare i ritmi al livello di ferocia della opener, martellando in puro stile black metal con una batteria decisa e chitarre gelide ed affilate accompagnate da un cantato aggressivo, che rallentano tragicamente lasciando il posto ad un assolo tetro e freddo, prima di accelerare nuovamente con la stessa veemenza di prima. Da qui la presenza del black metal si fa più scarna, e tra momenti acustici al limite del post-rock, tastiere atmosferiche e assoli raffinati ed armonici a rivestire una ritmica sostanzialmente post-doom si giunge alla conclusiva "Beneath the Keen Edge of the Time", l'episodio più lungo e melodico dell'album, fusione non molto riuscita di post-rock e atmospheric black metal che assume a tratti un contorno sludge/doom, risultando disturbante e forse esageratamente armonica. 

In conclusione il nuovo lavoro dei Khors pecca soltanto, con i suoi quasi cinquanta minuti di durata, di un'eccessiva lunghezza e della presenza di tracce che si sovrappongono nello stile e nell'idea musicale, non aggiungendo molto a quanto già sentito in precedenza. In sostanza però si tratta, a mio avviso, del loro lavoro più riuscito degli ultimi quattordici anni poichè riesce laddove gli altri avevano fallito, ovvero nel mantenere l'approccio black metal atmosferico degli esordi affinandolo e contaminandolo con altri generi senza però snaturarlo completamente, rendendolo melodico ma non eccessivamente orecchiabile, come invece risultano essere i suoi predecessori. "Where the Word Acquires Eternity" mostra una netta e forse definitiva maturazione nel sound della band ucraina, che per troppi anni si è cimentata in un'eccessiva sperimentazione smarrendo completamente l'idea musicale degli inizi mentre adesso sembra aver raggiunto la tanto agognata quadratura armonica, a metà tra atmospheric black metal e post-black/doom. Forse questa solidità è stata favorita dal tema principale del concept, così caro ai Nostri e così definito nella sua drammaticità: una drammaticità che accompagna anche a livello musicale ogni singola traccia, dando al lavoro un'essenza tragica e sofferta, a tratti violenta e a tratti malinconica, scandita da un solido riffing melodico e al contempo cupo e freddo, da una voce quanto mai disperata e da tastiere che rendono l'atmosfera dell'album assolutamente intrigante. "Where the Word Acquires Eternity" appare dunque come sintesi perfetta di quanto i Khors hanno provato fino ad oggi, riuscendo ad inglobare ogni loro sfumatura ed ogni loro essenza all'interno di un unico definito sound, variegato ma mai scontato, più personale e definito che mai. Adesso possiamo dire che Khorus e soci hanno raggiunto una loro effettiva identità musicale e ci auguriamo che con essa possano farsi notare, dopo sedici anni e sei album che li hanno resi una delle tante band emergenti del panorama est europeo all'ombra di altri colossi del black metal atmosferico di cui adesso sembrano pronti a ricalcare le orme. 

Alessandro Pineschi 
Voto: 80/100

Tracklist:
1. Starvation
2. Blissforsaken
3. Crystals Of the Fall
4. The Sea Of My Soul
5. ...And Life Shall Harvest One's Past
6. Up the Ladder To A Lance
7. The Mist (Let This Fog Devour A Snow)
8. Beneath the Keen Edge Of Time

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