ANTHRAX "Persistence of Time" (Recensione)
Full-length, Island Records
(1990)
Acquistarne la cassetta originale su Sweet Music con i pochi risparmi dell'epoca, suonare “Blood” in chiesa alla vigilia di Natale insieme agli altri mattacchioni del corso di chitarra, perdersi nel leggere i lunghi testi al solito opera di Scott Ian (con il fido Benante a occuparsi delle musiche), con particolare riferimento a “In My World”, compendio di molte delle paure adolescenziali di ognuno, osservarne la splendida copertina e restare quasi delusi nello scoprire che la sua possibile ispirazione – gli orologi molli di Dalì contenuti ne “La persistenza della memoria” – non disponeva della stessa carica malefica e “metal” (beata gioventù...): ecco, questo è per me “Persistence of Time” degli Anthrax, quinto capitolo della discografia di una band che è considerata tra i simboli del movimento thrash metal della East Coast statunitense.
Ma andiamo con ordine... dopo il trittico stellare degli esordi, gli Anthrax avevano realizzato quello che per lungo tempo è stato considerato l'anello debole della loro discografia classica, quello “State of Euphoria” che oggi certa critica tende a rivalutare, ma che francamente mancava di quei guizzi a cui ci avevano abituati i newyorkesi, perdendosi spesso e volentieri in partiture ridondanti (per non parlare delle linee vocali) e piazzando come unico momento davvero memorabile la cover di “Antisocial” dei francesi Trust, tuttora un vero e proprio cavallo di battaglia “acquisito”. Il passo falso aveva probabilmente inficiato la credibilità di una band già dall'attitudine poco convenzionale (complici i bermuda che già impazzavano all'epoca del tour di “Among the living”) e dunque il capitolo successivo sarebbe stato fondamentale per mettere in chiaro la direzione – ma soprattutto lo status – di Benante e soci.
Personalmente ritengo “Persistence of Time” l'album della maturità degli Anthrax, quel capitolo che svolge una funzione simile a quella rappresentata da “... And Justice For All” dei cugini Metallica (fatte le dovute differenze!): le partiture si fanno più complesse, l'impianto testuale si allontana definitivamente dall'immaginario fumettistico di metà anni '80, e il tutto si presenta vario ma incredibilmente omogeneo e coerente. Un discorso insomma che parte dalle coordinate del predecessore per realizzarne gli intenti, consegnandoci un disco “maturo” ma memorabile, simbolo indiscusso di dove gli Anthrax stessero andando in quegli anni. Certo, sarebbe stato difficile prevedere la svolta power/core del suo successore, ma l'evoluzione era in atto.
A testimonianza di ciò vanno episodi come “Keep it in the Family”, foriera del sound che sarà (e non a caso l'era Bush ci regalerà performance memorabili di questo brano), Intro to reality / Belly of the beast, per cui forse è troppo scomodare l'inflazionato aggettivo “progressive”, ma che restano comunque un fulgido esempio di maturazione del sound, oltre alla già citata e sofferta “Blood”, senza dimenticare alcuni episodi “minori” come “One man stands” in cui è lo stesso Belladonna a fornire le coordinate, regalandoci un esempio di classica performance Anthrax corredato dalle tipiche vocals melodiche del singer italo/americano. Uno dei nei dell'opera in questione è rappresentato dalla scelta di una opener debole come “Time”, inficiata dall'unico vizietto imperdonabile del drummer Benante, l'abuso dei controtempi (non a caso ne sarà utilizzato solo il tipico ticchettio iniziale sul live di successiva pubblicazione), il tutto bilanciato egregiamente dalla consueta e sagace scelta di una cover come quella di “Got The Time” di Joe Jackson (immancabile nelle scalette live persino in tempi più recenti) nonché dalla presenza di due gioiellini “alla vecchia maniera” come “Gridlock” e “Discharge”, veri esempi di thrash metal senza compromessi prestato alla nuova direzione intrapresa dalla band.
Il resto è Storia: sin dalle foto del booklet si intravede come vi sia un ritorno a un'immagine più oscura e “compassata” dopo gli imperdibili eccessi di colore dei due dischi precedenti, a cui va aggiunta la pelata di Scott Ian e il fatto che sarà l'ultima volta che vedremo Charlie Benante con i capelli lunghi; oltre a ciò, la band lamenterà successivamente il poco coinvolgimento di Joey Belladonna in fase compositiva, uno dei fattori che verranno citati come motivazione dell'incredibile avvicendamento al microfono che ne seguirà. Su questo, il fascicolo è ancora aperto: è innegabile come l'innesto di John Bush ci abbia regalato un capolavoro fresco e al passo coi tempi come “Sound of White Noise”, ma non si capisce come mai una coppia compositiva così consolidata come quella di Ian e Benante abbia addotto simili motivazioni, salvo cospargersi il capo di cenere nelle dichiarazioni più recenti e professare assoluta continuità con quel periodo di line-up “classica”. Poco male... a noi resta la musica, la cosa più importante.
Recensione a cura di: Francesco “schwarzfranz” Faniello
Voto: 90/100
Tracklist:
1. Time 06:54
2. Blood 07:06
3. Keep It in the Family 07:07
4. In My World 06:23
5. Gridlock 05:08
6. Intro to Reality 03:24
7. Belly of the Beast 04:46
8. Got the Time (Joe Jackson cover) 02:44
9. H8 Red 06:02
10. One Man Stands 05:39
11. Discharge 05:11
DURATA TOTALE: 01:00:24
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