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DEVIN TOWNSEND "Empath" (Recensione)


Full-length, Inside Out Music
(2019)

-Chi sono questi? 
La domanda, posta dalla mia ragazza mentre stava stirando una tenda – tra parentesi: io avevo già stirato tutte le camice – mi ha fatto capire che avrei dovuto mettere a questo disco un voto molto, ma molto alto. 

Erano anni che il devino canadese non tornava a sfornare un disco solista, dopo la lunghissima parentesi con i Devin Townsend Project (che non erano comunque una specie di continuazione della Devin Townsend band?), esattamente dal buon “Ziltoid The Omniscient” del 2007, e in generale erano già passati tre anni dall'ultimo full-length, quale che fosse l'esatto monicker stampato sulla copertina. Possiamo dire che si tratta del lavoro più atteso della sua intera carriera, su cui ha investito davvero tanto, sia dal punto di vista compositivo che in termini schiettamente monetari. Ora, non so quanto “Empath” gli renderà dal punto di vista economico, ma di sicuro so che gli sta rendendo già molto, moltissimo, in termini di stima e di critica. 

Come ho letto da qualche parte, e mi approprio di tali parole usate prima che le nuove direttive UE sul copyright diventino operative, “Empath” rappresenta un vero e proprio spartiacque, il disco a cui hanno portato tutti i suoi lavori precedenti e quello cui verranno paragonati tutti i suoi lavori futuri. Non penso sia la creatura in assoluto migliore partorita da Devin Townsend – la freschezza e la genialità delle prime cose sono davvero inarrivabili – ma è sicuro che rappresenti una specie di riuscitissimo “best of” del suo arcinoto eclettismo. 
Townsend è sempre stato un artista a tutto tondo, uno a cui piace spaziare e che non ama trincerarsi nella definizione di arte “colta”: già all'epoca di “Physicist” ricordo come orgogliosamente rivendicava il suo apprezzamento per i Limp Bizkit, che venti anni fa erano considerati, dal metallaro medio, la feccia della feccia della feccia commerciale. E' vero che, in definitiva, “arte colta” è quello che lui suona e con cui ci campa, ma fortunatamente ha imparato la lezione numero uno di Frank Zappa: la musica è un qualcosa di serio, ma non di serioso, per cui Devin ascolta di tutto e di più e poi lo mastica, lo digerisce, lo rielabora e ce lo restituisce – fortunatamente in forma di pappa reale e non di materia fecale. 

“Empath” è pertanto un disco complesso, ricco e variegato, che merita la definizione di progressive nel suo senso più ampio e di metal per lo spessore sonoro, ma che per almeno tre quarti della sua durata non rinuncia ed anzi orgogliosamente rivendica l'esistenza di quel centro di gravità permanente che è il ritornello, orecchiabile e vincente. La tanta strombazzata opener “Genesis” (più intro), è davvero la perfetta sintesi dell'intero lavoro, intesa in questo senso anche dallo stesso Townsend, non solo per la sua poliedricità, ma anche nel candore per come si appoggia ad un ritornello fresco ed accessibile davvero a tutti. In questo senso è un brano molteplicemente paradossale: perché nel suo attraversare quattro quinti degli stili musicali esistenti, non abbandona affatto la struttura/canzone per eccellenza, proponendo (chiaramente a modo suo) quello che è uno dei topic della musica dura più o meno mainstream, ovvero l'alternanza tra verso duro/criptico/pesante e ritornello semplice/cristallino/leggero. In ogni caso, una figata. La seconda “Spirits will collide” è forse il brano che più di ogni altro strizza l'occhio alla fruibilità da parte di un ascoltatore rock/metal moderno, impreziosito dall'eleganza e dalla classe delle armonie che si incastrano l'una con l'altra. 
E poi c'è lei, LA canzone, IL CAPOLAVORO. Era da “Namaste” che Devin Townsend non produceva una gemma di tale bellezza. Ed il video...una vivace allegoria della vita vissuta come viaggio interplanetario nei meandri della propria coscienza, attraverso difficoltà, disfatte e catarsi finale, ma anche una perfetta pubblicità progresso contro l'uso del cellulare alla guida, e con protagonista un simpaticissimo gattino imparentato con David Bowie. “Evermore” è un pezzo meraviglioso, un perfetto brano di progressive semisinfonico che, tra fasi di tumescenza e detumescenza, davvero non sbaglia una nota. Non so per quanto tempo riuscirò a passare una giornata senza ascoltarla almeno una volta. 

Il disco poi prosegue, forse senza raggiungere gli stessi picchi ma senza nemmeno mai essere meno che ottimo: dall'allegra e puramente classica “Why” alla placidità di “Sprite”, passando dalla terremotante “Hear me” - che coniuga l'ugola di Anneke Van Giesbergen con quella di Chad Kroeger dei Nickelback, a quanto pare vero ispiratore di un Devin Townsend in piena crisi creativa. Solo le conclusive (intermezzi a parte) e lunghissime “Borderlands” (il pezzo che stava ascoltando la mia ragazza quando mi ha chiesto chi fossero) e “Singularity” si tuffano pienamente nella struttura progressive, rinnegando sì la forma canzone ma non una certa orecchiabilità di passaggio, tra alti e bassi e trasformazioni di tutti i tipi. Ecco, se proprio devo puntualizzarlo, qualche difettuccio lo trovo proprio in questi due pezzi, che avrebbero tranquillamente potuto essere asciugati di qualche minuto – ma sentirei di dirlo anche di tante composizioni dei Genesis o dei Van Der Graaf Generator, in tutta onestà. 
Ma alla fine, c'è bisogno di aggiungere altro, rispetto a quello che ha già detto la mia ragazza? 

-Chi sono questi? 
-Devin Townsend. 
-Ah, davvero molto bello. 
AMEN.

Recensione a cura di: Fulvio Ermete
Voto: 84/100

Tracklist:
1. Castaway
2. Genesis
3. Spirits Will Collide
4. Evermore
5. Sprite
6. Hear Me
7. Why
8. Borderlands
9. Requiem
10. Singularity Part 1 - Adrift
11. Singularity Part 2 - I Am I
12. Singularity Part 3 - There Be Monsters
13. Singularity Part 4 - Curious Gods
14. Singularity Part 5 - Silicon Scientists
15. Singularity Part 6 - Here Comes The Sun

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